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Luzern, 1972 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk |
(pubblicato su
Orwell del 22 dicembre 2012)
Nel pantheon dei padri fondatori della fotografia contemporanea italiana Luigi
Ghirri ha sempre occupato un posto di primo piano. Nel corso della sua carriera,
interrotta bruscamente dalla morte nel 1992, Ghirri ci ha consegnato un catalogo
di visioni familiari e al tempo stesso stranianti, frammenti di luoghi conosciuti
ma trasfigurati dalle sue composizioni. Una poetica dello stupore per le piccole
cose, della scoperta celata dietro al banale e all'ordinario che ha lasciato un
segno profondissimo nell'evoluzione del discorso fotografico in Italia.
Nel 1978 Ghirri pubblica
Kodachrome, un libro che raccoglie 92 fotografie
realizzate nei sette anni precedenti, accompagnate da testi scritti da lui stesso e
da Piero Berengo Gardin. Trentacinque anni dopo la prima edizione, andata
esaurita molti anni fa, la casa editrice inglese
MACK ha finalmente pubblicato lo
scorso novembre
una seconda ristampa fedele in tutto e per tutto all'originale,
ridando una forma fisica a un oggetto che era diventato mitico, fino a ieri
sfogliato con venerazione da pochi fortunati.
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Reggio Emilia, 1973 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk |
La nuova edizione si presenta quasi
come una copia anastatica, la copertina illustrata con gli stessi quadretti da
quaderno scolastico dell'originale, l'aria
retrò del carattere tipografico dei testi, e
soprattutto le immagini, con quel sapore di pellicola, di fotografia fisica che ben
si sposa con il titolo del libro. Il nome
Kodachrome rappresentava per Ghirri
l'universalità del fare e del vedere fotografie, una democratizzazione estrema
dell'immagine: "Il senso che cerco di dare al mio lavoro è quello di verificare
come sia ancora possibile desiderare e affrontare la strada della conoscenza",
scrive Ghirri nella sua introduzione, "per poter infine distinguere l'identità
precisa dell'uomo, delle cose, della vita, dall'immagine dell'uomo, delle cose,
della vita". Il confronto/conflitto tra il reale e il rappresentato, l'interrogativo
circa la possibilità di poter ancora produrre senso tramite la visione animano le
riflessioni di Ghirri, che individua nel potere selettivo dell'inquadratura la via
per ripensare la nostra percezione delle cose. "La cancellazione dello spazio che
circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato ed è
grazie a questa cancellazione che l'immagine assume senso diventando
misurabile".
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Rotterdam, 1973 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk |
La vita quotidiana presentata in forma di rompicapo, con tutto
quello che non vediamo più perché sempre davanti a noi.
Kodachrome incarna
perfettamente questa ricerca del perturbante nell'ordinario, e Ghirri lo esprime
con una semplicità disarmante quando fotografa il disegno di un cavallo dietro le
sbarre di una saracinesca, oppure mostra la più classica delle vedute balneari
recisa verticalmente da una scura trave di legno.
Ovviamente in quegli anni non era il solo a interrogarsi su come rappresentare il
paesaggio antropizzato delle società occidentali: come Ghirri in Italia, William
Eggleston negli stessi anni introduceva il colore nella fotografia americana,
osservando lo scorrere uguale delle giornate nei
suburbs degli Stati Uniti, mentre
New Topographics, una mostra inaugurata alla George Eastman House di
Rochester nel 1975, raccoglieva i lavori di un gruppo di fotografi che indagavano
le trasformazioni prodotte dalla mano dell'uomo sul paesaggio americano
(
Photographs of a Man's Altered Landscape, recitava il sottotitolo). Ciò che lega
tutti questi lavori è la ricerca di un senso dell'immagine fotografica al di là di un
bello predeterminato, sostituendo la celebrazione del paesaggio di Ansel Adams
o Edward Weston con la rappresentazione dell'incongruenza delle forme e degli
strati che fanno il territorio abitato.
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Bastia, 1976 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk |
Ghirri conosceva bene sia Eggleston che i
New Topographics, e più volte ha manifestato il suo interesse per la parabola
della fotografia americana negli anni '60 e '70. L'errore è quindi pensare il suo
lavoro come isolato, santificarne la creatività di cantore di un segreto spirito
italiano, con quell'amore per le cose semplici che ci farebbe sentire ancora più
vicini a lui. Inchiodarlo all'intuizione originaria di
Kodachrome di una nuova
estetica dell'ovvio, oppure alla celebrazione dell'impresa fotografica collettiva
del
Viaggio in Italia del 1984: il
Viaggio è rimasto inamovibile nella memoria e
nel presente della fotografia italiana, una vetta apparentemente insuperabile, la
scoperta (e forse la conferma) di quell'anima malinconica, lirica che ci piace
attribuire al nostro piccolo mondo antico. Siamo rimasti innamorati di quelle
fotografie di panchine, palme, cancelli nella nebbia, bar di provincia come se non
ci fosse più nient'altro da scoprire di questo paese, come se il viaggio si potesse
fare una volta sola, e non ci siamo più chiesti perché non ce ne sia stato un altro.
"Luigi", come molti lo chiamano, è diventato l'eterno cantore di quella poesia
nascosta che in fondo non riusciamo a non concedere alla nostra patria. Il suo
percorso d'artista ha spesso rischiato di diventare una serie di tappe
agiografiche, quasi un destino già scritto. Eppure c'è bisogno di interrogarsi su
cosa possa dire ancora oggi il suo lavoro, proprio come il nuovo
Kodachrome ce
lo ripresenta, identico all'originale. Come spesso ha scritto, Ghirri ha soprattutto
indagato l'atto del guardare e del rappresentare tramite la fotografia.
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Paris, 1977 © Luigi Ghirri, courtesy MACK
www. mackbooks.co.uk |
Le
immagini del libro sono scattate in Italia e in altri paesi europei, ma sembrano
far parte di un unico mondo, quello cercato e ricomposto dal suo sguardo. Le sue
fotografie a volte ci suscitano una forma di disappunto per non averle scattate
noi stessi, tanto si presentano evidenti, in apparenza immediate. Chiunque può
provare a ripetere quegli schiacciamenti di prospettive, quei ritagli beffardi con
cui Ghirri creava i suoi rebus. Quello che non si può ripetere è l'intensità che
riusciva a produrre con così poco: due panchine, un ombrellone, un benzinaio.
Difficile è rendersi conto del complesso percorso di asciugamento dell'immagine,
del lavoro a togliere necessario per arrivare a un'economia di mezzi così efficace.
Più semplice è elogiare il suo approccio "intellettuale e al tempo stesso affettivo",
le sue fotografie "apparentemente semplici, silenziose, un po' pensose", come
recita il comunicato della mostra della Triennale di Milano "1984: Fotografie di
Viaggio in Italia. Omaggio a Luigi Ghirri", della scorsa estate. A distanza di quasi
trent'anni dal
Viaggio, la mostra ha voluto riproporre le fotografie di quei
luoghi "che ormai si sono completamente trasformati, spesso perdendo quella
armonia tra natura e cultura che era un tratto così profondamente italiano". Ma
Arturo Carlo Quintavalle, negli
Appunti che introducevano il libro, all'epoca
scriveva che l'intenzione del progetto era "una ricerca dell'Italia dei margini,
dell'ambiguità, del finto, del doppio, dell'Italia sostanzialmente esclusa, dell'Italia
che però è anche la sola che noi conosciamo". La distanza tra queste due
affermazioni racconta tutto il conflitto tra il considerare l'opera di Ghirri come
un patrimonio eterno e immutabile, e il tentativo di storicizzarne la ricerca,
cercare i legami, i rimandi, e non cedere alla seduzione dell'intuizione
solitaria. "Il vero genio non va monumentalizzato, va solo studiato", ha detto
Andrea Pazienza, un altro artista italiano intrappolato nell'ambra della gloria
postuma, ormai privato della possibilità di replicare, di cambiare tutto e
ricominciare da capo.
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Reggio Emilia, 1973 © Luigi Ghirri, courtesy MACK /www.mackbooks.co.uk |
Luigi Ghirri, Kodachrome
, MACK, 2012
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