Friday, April 27, 2012

A faceless road. 'SP 67', by Roberto Schena


“No one said it but I’m sure we all felt that we had entered a Smooth Land, and that we had taken part in something that made the talk of the city down there dull and that something would tie us together for a long time, maybe until the end, invisible to other people’s eyes, as it happens to the veterans who have survived a mystic war”.

Roberto Schena’s book SP 67. La strada della tramontana scura (The road of the North Wind) ends with a text telling the story of four friends crossing a dark and somehow threatening place. Voices, noises and mysterious creatures surround the four men, increasingly feeling like they do not belong there.


A 13 km provincial road connecting the outskirts of Genoa to a small village called Calcinara, a “Smooth Land” covered by moss, damp, and time. A secret land, dark, unfriendly and uncharted. But the main subject of the book is not the road itself, but rather the territory surrounding it, mostly shown with a sequence of elusive landscapes, seen through a mist which seem to have the purpose to prevent visitors from entering.

Schena’s photographs reflect this hesitancy: sometimes they even try to embrace the whole place, but only to face the impossibility of the task. Like notes scribbled down while crossing a place where you cannot stop, Schena’s images simply respond to the energy of that land, giving up the idea of dominating it. The result reminds of an imaginary chronicle, where rather than soldiers and civilians we see wild animals, abandoned cars, a man wearing a mask on his face.


This “mystical war” is presented in a book of considerable format, in which the photographs paradoxically show us a lot of what the place intends to conceal. The suspension between memory and dream in Schena’s photographs might have gained further strength choosing a smaller and more intimate format, where the reduced size of the images could have conveyed even better the feeling of the inner journey that can be experienced along the few kilometres of a small provincial road.


“Nessuno lo diceva ma sono sicuro che sentivamo tutti di essere penetrati in una Terra Morbida, e che avessimo partecipato a qualcosa che rendeva molto insipide le chiacchiere della città di sotto e quel qualcosa ci avrebbe legato insieme per molto tempo, forse fino alla fine, invisibile agli occhi degli altri, come succede ai veterani sopravvissuti di una guerra mistica”.

Il libro di Roberto Schena SP 67. La strada della Tramontana Scura termina con un testo che racconta di un gruppo di amici che attraversano un territorio inospitale, scuro, minaccioso. Voci, rumori e creature accompagnano i quattro uomini, nei quali cresce il senso di estraneità a quel luogo.


 13 km di una strada provinciale, che comincia subito fuori Genova e raggiunge un piccolo villaggio di nome Calcinara. “Terra Morbida”, la chiama il testo alla fine del libro, terra dalle forme incerte, ricoperte dal muschio, dall’umidità, dal tempo. Terra che nasconde, che si sveglia di notte, che non accoglie i visitatori e non indica la via.

Protagonista del libro non è tanto la striscia di asfalto che unisce i luoghi, ma piuttosto il territorio che la circonda, una sequenza di paesaggi ritrosi, avvolti da una nebbia che sembra suggerire di non addentrarsi, di non lasciare il sentiero perché altri non se ne troveranno.


 Le fotografie di Schena riflettono questa ritrosia, a volte cercano di abbracciare la totalità del luogo, ma soltanto per trovarsi di fronte all’impossibilità dell’impresa. Come note scritte di fretta, mentre si attraversa un luogo in cui non ci si può fermare, le immagini di Schena rispondono all’energia del posto, rinunciando a dominarlo. Come un reportage immaginario, ma che al posto di soldati e civili ci mostri animali selvatici, automobili abbandonate, oppure un uomo con una maschera sul volto.

Questa cronaca di una “guerra mistica”, come la descrive Schena, viene presentata in un libro di formato se non grande comunque ampio, dove le immagini mostrano molto di ciò che, paradossalmente, il luogo vuole nascondere: la sospensione tra ricordo e sogno di molte scene avrebbe forse trovato ulteriore forza da un formato più raccolto, dove la dimensione ridotta delle immagini avrebbe potuto meglio riflettere il viaggio interiore che può nascere lungo i pochi chilometri di una piccola strada provinciale.


SP 67, photographs by Roberto Schena, text by Paolo Caredda, 112 pages, Punctum, 2012

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Wednesday, April 25, 2012

Family fun


Back to the Future by Irina Werning is the ultimate "now and then" photographic projects. She recreated family snapshot photographing the same people 20, 25 years after, dressed and posing in the same way. The result is an outstanding re-staging of the original snapshots, an incredible attention to every single detail, whether it is the clothing of the people in the photographs - often growing in size together with them throughout the years - or the way they pose. And there is also Werning's ability in recreating the exact photographic flavour of the original snapshot, producing a collection of all kinds of family album photographs, from colour snapshots to studio portraits, polaroids, college yearbooks and so on.

Do not miss the rest of Werning's work, there's a lot to find. Take The Chini Project, for example: a whole project devoted to one Chinese Crested Dog in funny situations. And it works. When was the last time some photography gave you a decent laugh, after all? Comedy has always been the most difficult thing.


Back to the Future di Irina Werning è il lavoro fotografico definitivo sul tema del "come eravamo": dittici che presentano istantanee prese da album di famiglia accanto alla ricreazione delle fotografie con le stesse persone, 20 e più anni dopo. Il tutto con un'attenzione ridicola al minimo dettaglio, che si tratti dei vestiti che indossano (che spesso crescono con le persone con gli anni) o delle loro pose. In più c'è la cura messa nel ricreare il sapore fotografico di ognuna delle istantanee utilizzate, ricreando ogni tipo di scatto familiare, dalle snapshot a colori ai ritratti in studio, dalle polaroid all'annuario del college, e così via.

Non perdetevi il resto dei lavori di Irina. The Chini Project, per esempio, un intero progetto dedicato a un cane nudo cinese messo in buffe situazioni. E funziona. Qunad'è stata l'ultima volta che un lavoro fotografico vi ha fatto ridere? La commedia è sempre stata la cosa più difficile da fare.


All images © Irina Werning

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Thursday, April 12, 2012

Lights out

Death House Prison, Rawlins, Wyoming, 2000

"Over the last several years I have been photographing the institution of incarceration in American. The presence and location of these institutions of exile paradoxically reflect back upon the society that builds them. Prisons are highly complex systems designed to contain, and punish the burgeoning population presently incarcerated in the United States. Since 1980 the number of prisons in the U.S. has quadrupled... The United States has less than 5 percent of the world’s population. But it has almost a quarter of the world’s prisoners. More than one in 100 adults in the US is in prison or jail". 

Not much to add to Stephen Tourlentes' own description of his project Of Length and Measures, a series of night scenes showing the landscape surrounding several penitentiaries across the USA. His photographs look like a collection of different influences from the history of the great American landscape photography, something like a monochrome primer meant to illustrate how the American land and the suburbs were shown across the decades by the likes of Robert Adams, Frank Gohlke or Stephen Shore. 

Re-reading the American photographic tradition through the geography of its prisons, showing them just through the blinding lights of their perimeters, concelead in the landscape: I wonder if Tourlentes ever thought about his project this way, but should you want to read some of his own thoughts about the work, you can read an interview with the undiscussed autority on the subject, Pete Brook from Prison Photography.

State Prison, Dannemora, NY, 2004

"Per diversi anni ho fotografato le istituzioni penitenziarie presenti negli Stati Uniti. L'esistenza di questi luoghi si riflette paradossalmente sulla società che li costruisce: le carceri sono dei sistemi altamente complessi pensati per rinchiudere e punire la crescente popolazione attualmente detenuta negli Stati Uniti. Dal 1980 il numero di prigioni americane si è quadruplicato... Gli USA hanno meno del 5% della popolazione mondiale ma quasi un quarto dei detenuti presenti al mondo. Più di un adulto su 100 in America è detenuto in carcere".

Non c'è molto da aggiungere alla descrizione che Stephen Tourlentes fa del suo lavoro Of Length and Measures, immagini notturne che mostrano il paesaggio attorno a diverse tra le tante carceri disseminate lungo il territorio degli Stati Uniti. Il lavoro somiglia quasi a una collezione di esempi presi dalla grande tradizione del paesaggio americano, qualcosa di simile a un sussidiario in bianco e nero che ci mostra come il territorio americano e i suoi sobborghi sono stati rappresentanti lungo i decenni da fotografi come Robert Adams, Frank Gohlke o Stephen Shore.

Rileggere la grande tradizione fotografica americana attraverso la geografia delle prigioni del paese: mi chiedo se Tourlentes abbia mai pensato al suo lavoro in questo modo, se volete leggere le sue riflessioni sul suo progetto le trovate in un'intervista con l'autorità indiscussa in materia, Pete Brook di Prison Photography.

Federal Prison, Victorville, CA, 2007

All images © Stephen Tourlentes

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Tuesday, April 3, 2012

On documentary photography

Walker Evans, Coca-Cola shack in Alabama, 1935

La scorsa settimana il Teatro Coppola di Catania ha invitato me e Alessandro Imbriaco a tenere un workshop di fotografia durante il quale, tra le altre cose, ho parlato di fotografia documentaria e delle diverse declinazioni del linguaggio fotografico che oggi coesistono sotto questo termine.

Per l'occasione ho chiesto a diversi fotografi di dare una loro propria definizione di fotografia documentaria: riporto anche qui le loro riflessioni, ringraziandoli per aver trovato il tempo di rispondermi nell'arco di pochi giorni.

- Andrea Botto

Andrea Botto, KA-BOOM, 2009-ongoing

Personalmente ho sempre pensato poco alla fotografia come "documento", se non riferita alla tradizione "documentaria" post Walker Evans, ben sapendo quanto questi termini siano stati poi travisati ed abusati nel corso dei decenni.

Credo nell'immagine come messa in scena del reale, da cui non mi aspetto mai delle risposte.
Penso che le proprietà narrative o probatorie della fotografia siano davvero molto secondarie rispetto al resto, una sorta di effetti collaterali.

Uso la fotografia per ciò che è, per la sua natura sfuggente, che nasce per me talmente dal reale, da poterlo anche sovvertire e mettere in dubbio.

Ecco forse perché amo allo stesso modo Joel Sternfeld e Joan Fontcuberta.

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- Federico Covre

Federico Covre, Dovresti esserci. La vita qui è come l'abbiamo sempre sognata, 2009

Per la definizione riprendo una recensione che Lewis Baltz fece al lavoro di Robert Adams The New West pubblicata su Art in America nel 1975:

"C'è qualcosa di paradossale nel modo in cui le fotografie documentarie interagiscono con la nostra nozione di realtà. Per funzionare davvero come documenti devono prima persuaderci che descrivano i loro soggetti in modo fedele e obbiettivo; infatti il loro compito iniziale è di convincere il pubblico che sono veramente dei documenti, che il fotografo ha usato pienamente i suoi poteri d'osservazione e descrizione, e lasciato da parte chimere e pregiudizi. Il documento fotografico ideale parrebe essere senza autore o arte. Pure, naturalmente. le fotografie, malgrado la loro verosimiglianza, sono astrazioni; la loro informazione è selettiva e incompleta. La forza della fotografia documentaria è collegata alla sua capacità di informare come pure di riflettere la nostra percezione del mondo esterno."

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- Giorgio Barrera

Giorgio Barrera, Through the Window, 2008

C'è una frase di Walker Evans ("Documentaria è la fotografia della polizia scattata sul posto di un delitto. Quello è un documento. Vedi bene che l’arte è senza utilità, mentre un documento ha un’utilità. Per questo l’arte non è mai un documento, ma può adottarne lo stile. È quello che faccio io") che sicuramente meglio di quanto potrei fare io descrive quello che anche io intendo per fotografia documentaria.

Però potrei aggiungere una cosa. Rispetto ai tempi in cui nasce la straight photography adesso l'approccio al "documento" è molto diverso. Anni di TV, videogioochi e pubblicità non si possono non prendere in considerazione.

Se quello della nascita della straight photograhy è il tempo di Heisenberg e del suo principio di di indeterminazione, "è necessario che noi non modifichiamo con la nostra osservazione il fenomeno che vogliamo studiare", l'attuale è pieno invece di ostentazione e condivisione. La messa in scena, la cura o l'esibizione di una visione sono gli ingredienti della fotografia documentaria contemporanea che in un un certo modo tende più a mettere in mostra l'immagine dell'oggetto fotografato che non semplicemente a mostrarlo.

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- Domingo Milella


Domingo Milella, Blue Eye, Albania, 2007

Io credo che esista uno stile del documento in fotografia, ma che il documentario sia un genere invece...

A me non interessa il documentario alla fine dei conti, ma forse mi affascina o interessa lo stile del documento nelle fotografie.
(E' inutile che ti citi ancora Walker Evans e la sua idea chiara del documento utile e dell'arte inutile e di come in fotografia esista una via di mezzo tra le due ragioni, le due nature, le due ambizioni del mezzo stesso)
Io credo che la fotografia è sincera a se stessa quando è rispettosa e autentica nella sua natura e origine tecnica e documentativa...
Nel senso che l'immagine fotografica e' figlia del pensiero industriale e tecnico, risultato di una gestazione, di una filosofia estetica che affonda le radici nello scientifico, nell'empirico, nell'osservazione legata all'esperimento, alla sintesi, all'isolamento.

L'iconografia e il lessico di cio' che sembra documento in fotografia è un fatto estetico e linguistico inerente a quello che potremmo chiamare il bagaglio genetico della fotografia stessa, della sua nascita, della sua storia a dispetto degli infiniti disturbi di genere di cui la fotografia ha sofferto in tutta la sua storia di stili e contaminazioni.
L'estetica del documento, è anche l'estetica della foto senza autore, dell'apparente mancanza di stile, della funzionalità meccanica della fotografia. E' per l'appunto l'anima scientifica e meccanica del mezzo fatta in estetica. O anche il contrario forse.

L'illusoria mancanza di autore per lasciar spazio all'estetica del soggetto attraverso la foto è la quintessenza del bel documento.
O forse non è una questione di "documentarietà" ma una netta differenza tra fotografie che si lasciano guardare e che aiutano l'osservatore a imparare a ossevare, e fotografie che invece impongono il loro modo di esser guardate.
Penso alla fotografia dell' '800, quando ancora soggetto e metafora erano unite nello stesso luogo, nello stesso documento.

Credo che le immagini delle enciclopedie, le cartoline, le foto di Blossfeldt e dei Bechers, i modelli delle foto di Atlas di Richter, le foto dell'arte concettuale, le foto di Richard Long, o se pensi alle strade di Struth o ai ritratti di Ruff, c'e' tanta arte, anzi e' proprio quella che viene considerata la base della fotografia nell'arte a venire del sentiero estetico ed iconografico del documento.

Io ho sempre amato e fotografato secondo questo criterio, di semplicità, sincerità, e autenticità.

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- Marco Zanta

Marco Zanta, La Città, 2010

La percezione richiede partecipazione. Forse é una dichiarazione criptica ma per me ben
aderisce all'idea che sta alla base di tutti i miei progetti che si fondano su un approccio di tipo documentario.

Se da una parte c'é sempre l'esigenza di restituire un'identità precisa dei luoghi, attraverso la creazione di documenti, contemporaneamente tento di impossessarmi di ciò che che con gli occhi vedo, inserendo la possibilità che anche il lettore possa fare lo stesso. Trovo che proprio lo stile documentario riesca a fornire in modo "gentile" una chiave di lettura che mantenga appunto l'identità ma offra anche un valore aggiunto attraverso la partecipazione nell'interpretare.

Soprattutto trovo che lo stile documentario mantenga più di altri generi o approcci
quella ambiguità che é tipica del linguaggio della Fotografia, attraverso un continuo dichiarare, svelare e nello stesso istante essere reticente, lasciando che intervengano elementi altri, portati dalla cultura, dalla sensibilità, dalla partecipazione di chi leggerà quelle immagini.

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- Rocco Rorandelli

Rocco Rorandelli, Behind the Smokescreen, 2011

La fotografia documentaria? A me piace pensarla come un lungo percorso per avvicinarsi a una forma più completa di realtà, intesa in senso soggettivo, di percezione.

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- Marco Lachi

Marco Lachi, "How Does it feel..?", 2010

Una citazione letta non so dove e detta da non so chi, dice che:

"La differenza sostanziale tra reportage e doumentazione fotografica è che per la prima ti pagano 200$ al giorno per farla, mentre per fare la seconda spendi 200$ al giorno".

Forse è un po fuorviante e un po tagliata con l'accetta, ma chiarisce immediatamente un punto, che è il tempo di esecuzione. Avere tempo per pensare, vedere e conoscere e di conseguenza tempo per analizzare, il tempo puo essere una base per descrivere il processo di creazione documentaria. Non a caso, per citare i soliti noti, Guido Guidi che non è un documentarista in senso stretto ma qualcosa in piu, lavora, tra l'altro sul concetto di tempo in fotografia, sul passare del tempo e registra un attesa.
C'è anche un tempo tecnico che è quello dettato dal mezzo. Dove se il mezzo è lento non necessariamente produce un bel documento ma aiuta perlomeno a riflettere, anche se non ad analizzare ma a comporre. La composizione è un altra caratteristica del documento, la forma, se poi è bella come dice Robert Adams, tanto meglio.
Ovviamente, il tempo è solo un aspetto, forse quello a cui presto piu attenzione al momento, creare un documento dovrebbe forse avere il fine di mappare e creare un archivio, una catalogazione oggettiva.

Sarei curioso di sapere cosa scrivono gli altri, mi è capitato di recente di doverlo spiegare ad un gruppo di fotografi e non sempre è facile. Credo senza la paura di essere smentito che il fotografo documentarista tende a porsi dei limiti, limiti di ricerca e di struttura, di un'immagine e di un progetto. Perchè il limite non ha di default un'accezione negativa ma anzi aiuta a muoversi dentro una griglia.

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- Andrew Phelps

Andrew Phelps, Not Niigata, 2009

I think that documentary photography has become a "style" and no longer a genre like landscape, nude, portrait etc. Contrary to its definition, I think documentary photography can not be confused with truthful representation.

The "documentary" style came about in the age of journalism; people being sent someplace to bring back a story or information about a distant place or peoples.
Just because it was showing the world as it was (at least before digital manipulation) didn't mean that the photographer was showing the world as it really was, instead photographers, like now, made decisions about what to photograph and what not to photograph. Sequencing images and editing all played a part in the way photographs were "read".

So for me the "documentary style", and its language, is interesting because everyone THINKS that everyone understands this language. This of course can lead to very complex layering of truth and fiction.

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