La vita di una donna, dall’infanzia nella Cina rurale del 1950 fino all’età adulta a Honk Kong e poi in Inghilterra: The mother of All Journeys è il nuovo libro della fotografa e videoartista Dinu Li, un intreccio affascinante di memorie personali, vecchie istantanee di famiglia e nuove immagini dei luoghi che fecero parte della vita della madre.
The life of a woman, from her childhood in the rural China of the 50’s to her adult life in Honk Kong and then in England: The mother of All Journeys is the new book by photographer and video-artist Dinu Li, a fascinating visual story where personal memories, old family snapshots and new images of the places of her mother’s life are beautifully entwined.
Thursday, January 31, 2008
Diario
Wednesday, January 30, 2008
Science Fiction
Mary Mattingly crea immagini di quello che immagina sarà il futuro dell’umanità: cambiamenti climatici, nomadismo, tecnologia post-atomica fatta di strane cupole, case indossabili, figure solitarie che si guardano intorno con uno sguardo assente: inquietante, in una parola.
Fatevi un giro nel suo sito, pieno di ipotetici progetti della nuova tecnologia esistenziale dell’uomo del futuro, con tanto di una chiesa del consumatore che dovrebbe unire tutte le solitudini attraverso la rete telematica e un nuovo metodo per il calcolo del tempo…
Qui un testo sul suo lavoro.
Mary Mattingly creates images of what she believes will be the future of human kind: climate changes, nomadism, post-atomic technology made of weird domes, wearable houses, lonely characters staring around themselves with an empty gaze: scary, in one word.
Make a tour in her website, full of hypothetical projects of this new existential technology for the man of the future, foreseeing also a church of the consumer that should bring together all the lonelinesses through the net and a novel method of calculating time…
A short essay on her work here.
Tuesday, January 29, 2008
Paradisi artificiali
L’immagine qui riprodotta è composta da… 32000 bambole Barbie, corrispondenti al ritmo mensile di chirurgie estetiche al seno praticate negli USA nel 2006…
Un esempio del lavoro Running the numbers di Chris Jordan, masse sterminate di oggetti ognuna delle quali rappresenta una statistica agghiacciante della vita moderna americana, come la fotografia di 2 milioni di bottigliette di plastica, ovvero l’equivalente del numero complessivo utilizzato ogni cinque minuti dai cittadini americani, come del resto 410mila bicchieri di carta ogni quindici.
The image up here depicts… 32000 Barbie dolls, ‘equal to the number of elective breast augmentation surgeries performed monthly in the US in 2006’.
One example of Running the numbers by Chris Jordan, endless masses of objects, each of them standing for some frightening statistics about US modern life. The image of 2 millions plastic bottles for instance, the number used in the US every five minutes, or that of 410.000 paper cups, like those used by American citizens every fifteen.
In viaggio
Vale la pena ricordare anche noi come altri l'uscita in queste settimane di un libro molto interessante: The Roma Journeys, un viaggio lungo sette anni compiuto dal fotografo danese Joakim Eskildsen e dalla scrittrice finlandese-svedese Cia Rinne lungo le strade che formano la nazione diffusa dei Roma, il popolo europeo banalmente definito come zingari.
Si tratta di una vera e propria epopea visiva, una di quelle occasioni in cui il documento e l'immagine riescono ad essere una cosa sola e la parola 'sociale' applicata alla fotografia ha davvero senso.
Da vedere anche gli altri lavori di Eskildsen.
It is worth that we too, like many others, mention the release in these weeks of a quite interesting book: The Roma Jouneys, a seven-year long trip made by Danish photographer Joakim Eskildsen and Finnish-Swedish writer Cia Rinne along the roads that form the diffused Roma country, the European people banally defined as gipsies.
It is a true visual epopee, one of those occasions in which the document and the image can become one, when the word 'social' applied to photography really makes sense.
Worth to be seen the rest of Eskildsen work as well.
Monday, January 28, 2008
Necrologio
Il titolo di una mostra in una galleria di Toronto ha subito attirato la mia attenzione: The death of photography. Ci risiamo, mi sono detto, un’altra occasione per speculare sul tema analogico/digitale, la pellicola, la fotografia, com’era una volta, com’è ora. Mi sono allora messo a capire di cosa si trattasse, e la reazione finale è stata meno polemica di come immaginavo, più ironica, forse. Si tratta di una mostra collettiva di tre fotografi, ognuno dei quali affronta in modo diverso il tema della dissoluzione dell’industria fotografica analogica. Il primo è Michel Campeau, con il suo lavoro Darkroom, dedicato alle camere oscure abbandonate, e di cui abbiamo già in passato menzionato i close-up di oggetti patetici e abbandonati a cui sono dedicate le sue immagini.
Il secondo è Robert Burley, il cui lavoro The Disappearance of Darkness documenta l’ultimo anno di vita del complesso industriale della Kodak di Toronto. Burley usa un bell’approccio paesaggistico e ambientale per raccontare luoghi dove fasti del passato e abbandono del presente coesistono in una strana atmosfera sospesa. Una delle principali qualità del suo lavoro è proprio quello che è assente nelle immagini di Campeau, il racconto dei luoghi, la rappresentazione dello spazio.
Il terzo lavoro, Lament di Alison Rossiter, presenta i disegni automatici che si generano in pellicole e carte fotografiche scadute da anni e sviluppate senza esporle, una sorta di ready-made della fotografia analogica.
I lavori sono molto diversi tra loro, praticamente hanno in comune esclusivamente il fatto di evocare una perdita, una scomparsa, compongono una sorta di elegia funebre.
Ma cos’è che questi lavori piangono esattamente? Che cosa è scomparso?
È scomparsa la grande industria fotografica analogica, ma cosa è scomparso con lei? La cosa che mi colpisce di più è che sembra che ciò che viene detto non esistere più sia proprio un tipo di immagine, come se ciò che c’è ora sia qualcosa d’altro. Questo in parte è vero, ma se si considera che non ci sono più milioni di scatti ‘privati’ fatti con la pellicola, decine di migliaia di camere oscure amatoriali nei garage delle case e migliaia di persone che si preparano con amore il loro portfolio ai sali d’argento, è altrettanto vero che la possibilità di fare tutto ciò non è sparita, c’è ancora, se la si vuole cercare.
Adesso ci sono milioni di macchine digitali, più o meno piccole, più o meno piene di funzioni nascoste che usurpano all’utente tante piccole possibilità di decidere come fare le proprie fotografie.
Ma questo nel 1890 già lo diceva la Kodak con la sua prima pellicola in rullo, ‘Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto’. Trovarono anche una parola per esprimere tutto questo, snapshot, quello che in italiano chiamiamo istantanea e che in inglese significava lo sparo alla cieca che il cacciatore fa quando durante la battuta sente un movimento tra gli alberi, punta e spara senza mirare davvero.
E allora di nuovo, cos’è cambiato? Non è sparito davvero un modo di realizzare immagini fotografiche, piuttosto siamo semplicemente in un nuovo stadio della storia del consumo delle immagini fotografiche, che è un’altra cosa.
Chiunque voglia fare delle fotografie chiedendosi cosa davvero vuole fare con la sua mente e le sue mani, in ogni momento, dallo scatto alla stampa, può ancora liberare la fantasia e scegliere tutti i suoi gesti da artigiano. Non è questione di analogico o digitale.
The name of a photographic exhibition of a gallery in Toronto immediately caught my eye: The death of photography. Here we are again, I thought, one more chance to speculate on the analog/digital story, film, photography, how was it once, how it is now. I then tried to understand what it was all about, and my final reaction was less angry than I thought, more ironic, maybe.
It is a collective exhibition of three photographers, about the disappearence of the analog photography industry.
The first one is Michel Campeau with his work Darkroom, images of abandoned darkrooms. I already mentioned his close-ups of pathetic abandoned objects that represent the main theme of his images.
The second one is Robert Burley, whose work The disappearance of Darkness documents the final year of activity of the Kodak Toronto facility. Burley uses an interesting approach towards his subject, using urban landscape and interior photography to show us the places where the glories of the past and the actual state of neglect live together in a surreal atmosphere. One of the main qualities of Burley’s work is exactly what is missing in Campeau’s images, the visual tale of those places, the representation of space.
The third work, Lament by Alison Rossiter, is made with the automatic drawings made by long-time expired films and papers when developed unexposed, a kind of ready-made of analog photography.
These works are quite different one from the other, they basically just share the fact of evoking some kind of loss, or disappearance, they make a funeral elegy.
But what do these images exactly mourn? What disappeared then? The analog photography mass industry disappeared, but what faded away with it? The thing that strikes me most is that it is as if what would have disappeared is a kind of image, as if what we have now would be something different. This is true in part, but if millions of ‘private’ analog shots don’t exist anymore, like tens of thousands of amateur garage darkrooms or thousands of people making their silver gelatin portfolios, it is as much true that there is still the possibility for all this.
Now we have millions of digital cameras, more or less compact or small, more or less full of hidden functions that don’t allow the user to decide how to shoot his own pictures.
But this was already true in 1890, when Kodak introduced the first roll film with the slogan ‘You press the button, we do the rest'. They also found a name for this, ‘snapshot’, the word used by hunter for a random shot without really aiming at the target.
So, again, what has really changed? No photographic technique, or worst, identity has really disappeared, we are just in a new stage of the consumer history of photography, which is something else.
Anyone who wants to take pictures exploring any possibilities with the mind and the hands at any stage, from the shoot to the print, can still unleash his or her own fantasy and make all the choices, like a craftsman. There’s no analog/digital debate on this.
Thursday, January 24, 2008
On the road
Train hoppers, fuggitivi della vita moderna, vite all’aria aperta, occhi chiari: i belli ‘emarginati’ di Mike Brodie, alias The Polaroid Kidd.
Brodie ha anche aperto un sito dedicato alla fotografia Polaroid, dove ospita sia lavori sia immagini ritrovate.
Qui un’intervista, qui una lunga serie delle sue belle istantanee e qui immagini da una sua mostra/installazione.
Train hoppers, modern life runaways, lives on open air, bright eyes: the beautiful outcasts of Mike Brodie, aka The Polaroid Kidd.
Brodie also launched a website devoted to Polaroid photography, hosting both Polaroid-based works and found images.
An interview here, a long sequence of his beautiful instant images here and some installation views.
Wednesday, January 23, 2008
Senza lente
Craig J Barber è un esempio interessante di fotografia stenopeica, uno di quei casi (non frequenti) dove guardando le immagini non si passa il tempo a pensare soltanto ‘wow, è fatta con una scatola senza obiettivo!’
Craig J Barber is an interesting example of pinhole photography, one of those (unfrequent) cases where you don’t just spend your time thinking ‘wow, it’s made with a lenseless box!’
Il cielo sogna
Non potevo non segnalare un libro uscito recentemente, High Tide Wane Moon, la prima monografia dell’artista giapponese Kazuumi Takahashi.
È un racconto visivo sulla luna e l’oceano, il loro amore, la distanza tra loro, e altre cose. Una serie di dittici dove vediamo i due mondi lontani che si guardano (un'immagine della luna a sinistra, una dell'oceano a destra), e chissà a cosa pensano.
Non ho avuto gran fortuna nel cercare lavori di Takahashi in rete, spero che altri abbiano più successo di me.
I couldn’t help mention this book that came out recently, High Tide Wane Moon, the first monography by Japanese artist Kazuumi Takahashi.
the book is a visual tale about the moon and the ocean, their love, the distance between them and other things. It is made of a series of dyptics where we can see the two distant worlds looking at each other (an image of the moon on the left, an image of the ocean on the right), and who knows what's in their minds.
I wasn’t quite lucky in finding works by Takahashi on the web, hope someone will have more chance than me.
Friday, January 18, 2008
Il cielo cade
Un botto di portata inferiore è quello di Sarah Pickering con la serie Explosion. Le immagini sono state realizzate durante l'addestramento dell' esercito britannico e le esplosioni che si vedono fanno riferimento a specifici tipi di esplosivo (da cui i nomi delle singole opere) preparati da artisti della riproduzione pirotecnica (tra gli artificieri c'è chi lavora sui set dei film di James Bond).
Le immagini per me più interessanti generate da questa doppia rappresentazione della realtà nascono quando, l'esplosione è rappresentata coma la caduta di una nuvola al suolo.
Altro lavoro interessante della Pickering è la serie Public Order.
Qui la fotografa intervistata su Mental Contagion.
Grazie ad Alberto per la segnalazione.
A “minor impact” explosion is the one by Sarah Pickering, with her work called Explosion. The images have been made during British military training. Actually the explosions you can see in the images refer to specific type of explosive, (which give the different titles to the pictures) prepared by pyrotechnics reproduction artists (among the artificers there is also who works on James Bond film set). According to me, the most interesting image generated from this double level of reality representation, is the one in which the explosion looks like the fall of a cloud to the ground.
Another interesting work by Pickering is Public Order. Here you can find the photographer interviewed on Mental contagion.
Thanks to Alberto for the link.
Archivi di luce
Michael Light ha creato due bellissime opere visive, la prima usando immagini d’archivio della NASA dello sbarco sulla luna (Full Moon è il titolo del libro), la seconda raccogliendo una sequenza impressionante di immagini di test nucleari dell’esercito americano, nel libro 100 Suns.
Ora è passato a creare il suo proprio archivio visivo, fotografando vedute aree del territorio americano, un progetto chiamato Some dry space, a cui si dedicherà per i prossimi dieci anni.
Qui un'intervista con Michael Light.
Michael Light made two wonderful visual works, the first one using NASA images of man’s landing on the moon (Full Moon is the name of the book), the second one collecting a shocking sequence of images of nuclear tests by the American army in the book 100 Suns.
Now he moved on to create his own visual archive, photographing aerial views of the North-American landscape, a project called Some dry space that will engage him for the next ten years.
Find an interview with Michael Light here.
Wednesday, January 16, 2008
Homo ridens
Il lavoro di Pieter Hugo contiene tutti gli elementi che di solito mi infastidiscono di quel genere fotografico che in tre parole si riassume in fotografia, Africa e disperazione. Le sue immagini sono sempre molto dure: la serie di facce gonfie dei cadaveri di persone morte di AIDS o quella degli albini africani, o le ossa delle vittime del genocidio in Rwanda. Dopo aver visto questi lavori hai sempre la sensazione che l'unica cosa che ti resta è il segno dello schiaffo che t'hanno dato, ma nessun'altra informazione. A questo punto torna in mente Ando Gilardi quando dice: "Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del "diritto all'informazione" e se informazione non resta, allora resta solo un'altra considerazione di Gilardi: "Come giudicheremmo un pittore con pennelli, tavolozza e cavalletto che per fare un bel quadro sta davanti alla gabbia del condannato all'ergastolo, all'impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, ad un corpo lacerato che affiora dalle rovine? Perché presumi che la borsa di accessori, la macchina appesa al collo e un flash sparato in faccia possano giustificarti?..."
Ma allora perchè parlarne. Sta uscendo il libro che raccoglie il suo lavoro The Hyena & Other Men, dove ritrae una specie di gruppo di saltimbanchi dall'aria tosta che vanno in giro per i villaggi nigeriani con il loro seguito di iene, scimmie e serpenti a fare spettacoli di strada e a vendere medicine d'erbe. Sono ritratti a figura intera, con la stessa composizione che ritorna e con dei colori smorti. Per quanto ripetitivo, il lavoro contiene proprio quella scintilla che manca nelle altre serie di Hugo: l'aura della presenza, l'orgoglio di vivere delle proprie forze, lo sguardo che non riesci a capire e a contenere, il potere di questi uomini di non farsi imprigionare dalle immagini che li ritraggono.
E quindi, una cosa importante sicuramente questo libro l'ha fatta: mostrare immagini di uomini che sono più forti dei loro ritratti.
The work of Pieter Hugo has all the elements that usually bothers me of that photographic genre that can be summed up in photography, Africa and desperation. His images always hit really hard: the series of swollen faces of people killed by HIV, the African albinos, or the bones of the victims of the genocide in Rwanda. After seeing this kind of work you always have the feeling that the only thing that’s left is the mark of the slap on your face, and nothing more. Gilardi’s words then come to mind, when he wrote: “The worst infamous acts in photography are committed in the name of the right to information”, and if no information comes after, then what’s left is maybe one more thought by Gilardi: “How would we consider a painter with brushes, easel and palette who, to make a great painting, would stand in front of the cell of a man sentenced to jail for life, or in front of a dangling hanged man, or a whore trembling with cold, a torn body rising from the ruins? Why do you presume your bag full of accessories, the camera around your neck and a flash on a face would justify you?” (Our translation)
Then why talk about it. Hugo’s book collecting his work The Hyena and other men has just come out, in which he portrays a group of tough-looking tumblers wandering around Nigerian villages with hyenas, monkeys and snakes, performing on streets and selling herbal drugs. Pictures are full-figure portraits, all framed in the same way and pale colored. Although repetitive, the work has the true element missing in his other series: the aura of a human presence, the pride of their own strength, their glance you cannot fully understand or contain, the power these men have of not being imprisoned in images.
In conclusion, this book surely achieved one important thing: to show images of people who are stronger than the photographic portraits of them.
Una vita di fotografie
Basterebbero le serie di ritratti e le loro strane serialità (gente al Luna Park, motorini, uomini sulla poltrona del barbiere) a rendere il lavoro di Doug Dubois estremamente interessante. Poi scopri che quello è solo l’inizio e che ha anche realizzato due serie nell’arco di vent’anni e più di vita, che si chiamano semplicemente Family Photos, e ti rendi conto di quanto è davvero esteso e bello il suo lavoro.
Qui una conversazione con Alec Soth, tratta da Conscientious (grazie, ancora una volta).
The portrait series with their repetitive style (people at amusement parks or on scooters, men sitting on the barber’s chair) would already be more than enough to make the work of Doug Dubois quite interesting. Then you find out that you just saw the tip of the iceberg and that he also made two series along more than twenty years, simply called Family Photos, and there you finally realise how vast and beautiful is his work.
Here a conversation with Alec Soth, found on Conscientious (thanks, one more time).
Monday, January 14, 2008
Trama e dettaglio
Di nuovo la Cina, seguendo la teoria degli spazi contemporanei che stiamo vedendo sviluppare da diversi fotografi, in una risonanza che fa pensare quasi a un movimento collettivo, ma in questo caso con l’abilità di abbandonare il rigore compositivo e la vastità visiva per addentrarsi in vicoli, monolocali e vite private, raccontandoci la vita che scorre sotto le torri inespugnabili dell’espansione economica: questo in sintesi il lavoro di Michael Wolf, tedesco residente da dieci anni a Hong Kong. Due esempi della sua capacità di mostrarci diversi aspetti di una realtà che facilmente ci viene presentata come monolitica: da una parte il lavoro Architecture of density, dall’altra Sitting in China: the bastard chairs.
China again, following the theory of contemporary spaces being developed by several photographers, joined in a visual resonance that sounds like a collective movement, with the difference, in this case, of someone being able to leave the strict sense of composition and the visual vastness to wander into alleys, one-roomed flats and into the private lives of people, showing us the life flowing under the impregnable towers of the economic growth: that is the work of Michael Wolf, a German who moved to Honk Kong ten years ago. Two examples of his ability in showing different aspects of a reality too often depicted as monolithic: the work Architecture of density from one part, and Sitting in China: the bastard chairs, from the other.
Thursday, January 10, 2008
A futura memoria
Sono ormai diventati tanti gli esempi di lavori fotografici incentrati sulla ‘Cina e sui suoi cambiamenti frenetici’, l’economia in ascesa, l’inquinamento, le demolizioni, le nuove architetture imponenti e tanto altro. Bisognerà forse un giorno fare un bilancio di questa onda, di questo movimento che troverà nelle Olimpiadi di Pechino della prossima estate il culmine storico e, probabilmente, visivo. Forse qualcuno proverà a legare tutti questi diversi lavori fotografici, l’oggettività visiva che li accomuna, i colori slavati, le architetture impietose, le visioni vaste che ci ridanno. Quasi una risposta di ordine contro il caos di una città come Pechino, demolita e ricostruita in tempi così veloci che in tante fotografie i crolli e le costruzioni sembrano accadere simultaneamente. O forse si tratta di una specie di competizione con l’ordine astratto delle architetture del futuro, quasi un modo per dire che l’occhio umano può di più delle geometrie dei volumi, ingabbiando in delle immagini le costruzioni che a loro volta stanno ingabbiando e forse cancellando la storia della città.
Intanto facciamo un altro esempio, A China Chronicle di Zeng Li (un’intervista qui), fotografo e scenografo, che per dieci anni ha fotografato le varie tipologie di abitazioni di Pechino, con l’intento di creare un archivio visivo del paesaggio urbano morente, prima che ogni traccia di esso fosse svanita.
Zeng Li ha anche fotografato molti complessi industriali e fabbriche cinesi, creando una sorta di storia visiva dell’ascesa della Cina come potenza contemporanea, attraverso gli strati delle sue città e i monumenti della sua crescita economica.
Molto interessante è il capitolo visivo che Li ha detto di voler cominciare adesso, e che forse è quello più assente dai tanti lavori in generale che abbiamo visto: le campagne cinesi e gli effetti della cosiddetta modernizzazione su di esse.
Viene anche da chiedersi quali siano le tendenze in generale della fotografia contemporanea cinese rispetto all’invasione del ‘progresso’, qui possiamo vedere alcuni esempi.
Un’altra ricerca interessante è quella sulle tendenze delle arti visive cinesi in generale in quest’inizio di XXI secolo: un’occasione sarà la mostra che aprirà al Palazzo delle Esposizioni di Roma il 19 febbraio, Cina, XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione.
There have been several examples of photographic works focused on ‘contemporary China and its frenetic changes’, its rising economy, pollution, demolitions, new gigantic architecture and many more. Maybe one day there will be the need to take stock of this wave, this movement that will probably reach its historical and visual climax in next summer’s Beijing Olympic Games. Maybe someone will try to connect all these different photographic works, their common visual objectiveness, their pale colors, the merciless architecture and vast visions they display in front of us. It’s almost as if they would want to stand as some order against the chaos of a city like Beijing, demolished and rebuilt at such a fast pace that collapse and construction seem to happen simultaneously. Or maybe it is some sort of competition against the abstract order of this architecture of the future, as if the human vision could make more than the geometries of their volumes, caging in images buildings that are caging and maybe erasing the history of the city.
In the meantime, let’s make another example of all this, A China Chronicle by Zeng Li (an interview with him here), a photographer and stage designer, who’s been photographing for the last ten years different kinds of residential constructions in Beijing, with the aim of creating a visual archive of a dying urban landscape, before any trace of it would disappear.
Zeng Li also photograhed several Chinese industrial complexes and factories, thus creating a visual history of the rise of contemporary China shown through the layers of its cities and the monuments of its economic growth.
Quite interesting is the fact that Li said he intends to start photographing the Chinese agricultural areas and the effects of the so-called modernization on them, perhaps the less explored aspect in the many works we saw.
The question is also about the main tendencies of Chinese contemporary photography in regards to this invasion of ‘progress’, and we can see some examples here.
Another interesting research would be about contemporary Chinese visual arts in general: one good chance could be the exhibition opening at Rome’s Palazzo delle Esposizioni on February 19: China, XXI century. Art between identity and transformation.
Wednesday, January 9, 2008
Discendenze italiane
Domingo Milella ha un approccio molto ‘contemporaneo’ alla fotografia di paesaggio urbano, in cui l’imprinting topografico è decisamente presente. Interessante è la ricorrenza di un doppio livello nelle sue immagini, mostrando contemporaneamente le topografie costruite e i detriti e i residui che queste lasciano dietro di sé.
Alcuni suoi lavori fanno parte della mostra Ereditare il paesaggio, attualmente al Museo del Territorio Biellese, che raccoglie i lavori di diversi autori 'storici' italiani, ognuno dei quali ha poi scelto due giovani fotografi da inserire nella mostra: una buona occasione per avere un assaggio di passato, presente e futuro della fotografia di paesaggio italiana visti dalle curatrici della mostra Giovanna Calvenzi e Maddalena d'Alfonso.
Domingo Milella has quite a ‘contemporary’ approach towards urban landscape photography, with a strong topographic imprinting. One interesting element is the recurrence of a double level of representation in his pictures, showing the manufactured topographies and their debris and remains at the same time.
Some of his works are part of the exhibition Inheriting the landscape, now at the Museum of the Territory in Biella, a collection of several 'historical' Italian authors, with each of them having chosen two young photographers included in the exhibition: a great chance to have a glimpse of the past, present and future of Italian landscape photography according to exhibition curators Giovanna Calvenzi e Maddalena d'Alfonso.
Sunday, January 6, 2008
...una terra promessa, un mondo diverso
Le foto di Tsuchida Hiromi della serie "new counting grains of sand" visualizzano quel processo che si verifica quando un gas viene immesso in un ambiente che ne è privo e tende a occupare immediatamente tutto lo spazio che ha a disposizione.
The pictures in the work “new counting grains of sand” by Tsuchida Hiromi, visualize that kind of process that takes place when a gas enters a place - in which there was no gas - and tends to fill immediately and completely all the room there.
Metropoli private
Spesso nelle nostre menti possiamo essere tremendamente convinti che New York è ‘New York’ e Istanbul è ‘Istanbul’, sappiamo grosso modo chi sono i ‘newyorkesi’ (che ci piace saper distinguere dagli americani in generale) e i ‘turchi’, tante immagini conosciamo, tante cose abbiamo sentito o letto. Poi però bussiamo alla porta di una casa di Istanbul, ad esempio, entriamo, e le cose possono sembrarci piuttosto differenti.
City Lives di Arabella Schwarzokpf è un esempio molto bello di tutto questo.
Qui altre immagini.
We are often deeply convinced that New York is ‘New York’ and Istanbul is ‘Istanbul’, we more or less believe to know who the New Yorkers (we like the fact we distinguish them from the Americans in general) or the Turkish people are, so many images we saw, so many things we heard or read. Then we knock at the door of a house in Istanbul, we go in, and things can look quite different.
City Lives by Arabella Schwarzokpf is a great example of all this.
More images here.
Saturday, January 5, 2008
Carne
Il parallelo fra "Copia" di Brian Ulrich e la cinematografia "zombesca" degli anni 80 è immediato. Nelle foto come in un film di Romero, "Zombie"(1979), folle di non morti affollano le sale di un centro commerciale alla ricerca di generi di prima necessità.
The parallel between “Copia” by Brian Ulrich and the zombie movies from the ‘80s is clearly visible. In the pictures, as in Romero’s movie “Zombie” (1979), a mass of living dead crwods into a shopping-mall, in search of food.
Thursday, January 3, 2008
Pollaio
Un parco giochi incorniciato da uno svincolo autostradale, un cavalcavia che sovrasta una villetta unifamiliare, un carro armato parcheggiato ad un incrocio; il tutto avvolto da una luce senza ombre che restituisce la sensazione/alienazione di un allevamento intensivo, uno di quei posti dove tutto si svolge ad un ritmo costante e ciclico di nascita, crescita e sostituzione.
The Region di James Rotz.
A kids playground framed by a highway interchange, a flyover towering over a one-family house, a military tank parked next to a crossroad; everything wrapped in a shadowless light, giving the feeling and the alienation of an intensive animal breeding, one of those places where everything goes on at a constant and cyclical pace of birth, growth and replacement.
The Region by James Rotz.
Guardami negli occhi
È piuttosto difficile incontrare un lavoro sul nudo dove l’immagine non si limiti a suggerire semplicemente di guardare il soggetto (l’oggetto?). Echo, il libro di nudi femminili del fotografo birmano Chan Chao, è decisamente un’eccezione: le sue immagini femminili hanno una presenza che lascia con la sensazione di essere guardati, piuttosto che di osservare a nostro piacimento.
Qui altre immagini dal libro.
Chan Chao inoltre nel 2003 ha pubblicato il libro Burma: something went wrong, una collezione di ritratti di esuli birmani lungo i confini del paese (ora Myanmar), fuggiti dopo l’avvento della dittatura militare.
Qui un video con il fotografo che parla di questo lavoro.
It is quite difficult to find a photographic work of nude where the images go beyond the mere invitation to look at the subject (the object?). Echo, the book of female nudes by Burmese photograher Chan Chao is quite an exception: his images of women hold such a presence they leave you with the feeling of being looked at by them rather than watching on your own.
Here more images from the work.
Chan Chao also published in 2003 the book Burma: something went wrong, a series of portraits of Burmese refugees along the borders of the country (now Myanmar), fled after the takeover by the military dictatorship.
Here a video with the photographer talking about this work.
Wednesday, January 2, 2008
Apolidi
Yasser Aggour, Cairo, 2005
Due esempi di fotografia applicata ad un’indagine sull’intreccio e sul confondersi delle identità culturali e delle tradizioni visive: Yasser Aggour, nato nel New Jersey da famiglia egiziana, lavora sullo scontro tra l'atto della rappresentazione e il mondo di immagini che semplicemente subiamo perché intorno a noi; Rishi Singhal, indiano, esplorando le trasformazioni urbane in Occidente e in India, scopre la progressiva perdita di una forma compiuta nei paesaggi contemporanei che attraversa.
Two examples of photography applied to an investigation over the interlacement and the confusion of cultural identities and visual traditions: Yasser Aggour, born in New Jersey from an Egyptian family, works on the clash between the act of representation and the world of images we experience simply because it’s all around us; Rishi Singhal, Indian, while exploring the urban transformations in the Western world and in India, discovers the progressive loss of an accomplished form in the contemporary landscapes that he travels.
Rishi Singhal, Berlin, 2004
Prendersi il proprio tempo
Come non provare amore immediato per un fotografo che oggi lavora con pellicola a lastre andando in giro per zone di guerra (e altro) con una folding 4x5?
Simon Norfolk, in poche parole.
Il resto lasciamolo dire a lui in un’intervista di un anno fa (leggete, leggete), oppure ascoltandolo qui.
How can someone not feel immediate love for a photographer working with sheet film these days while wandering around war zones (and more) with a folding 4x5?
Short, Simon Norfolk.
Let’s leave the rest to him in this interview of a year ago (read, read), or listen to him here.
Parlare d'immagini
Idris Khan, every... Bernd and Hilla Becher Spherical type Gasholders, 2004
Words without pictures è un progetto lanciato dal Los Angeles County Museum of Art dedicato a creare una rete di riflessioni sulla fotografia, destinate a confluire in un libro che sarà pubblicato tra un anno. Interessante è la struttura, con un calendario di interventi scritti (peraltro ancora in parte da definire e aperto a proposte di tematiche), i relativi forum che vengono aperti dopo ogni testo pubblicato sul sito e una serie di appuntamenti pubblici, come dibattiti o dialoghi.
Buona esplorazione!
(Grazie a you call this photography?)
Words without pictures is a project created by the Los Angeles County Museum of Art, aimed at creating a network of debate on photography and set to be published in a book in a year. The structure of the project is quite interesting, with a calendar of essays (to be fully defined yet and open to suggestions, by the way), a forum following each text appearing on the website and a series of public events, such as debates and one-to-one conversations.
Enjoy the surfing!
(Thanks to you call this photography?)