Presentiamo anche a casa nostra il nostro contributo apparso su Nazione Indiana, dove torniamo con più calma su alcune nostre vecchie conoscenze fotografiche:
Louis Pierson, Ritratto della Contessa Castiglione e suo figlio, 1864
C’è il tempo interno dell’immagine e il tempo necessario per farla, l’immagine, sono due cose diverse. Ma, c’è il tempo necessario a pensare e arrivare all’immagine e poi c’è quello che fisicamente serve perché l’immagine esista, venga registrata sulla pellicola.
I primi anni della fotografia erano anni di tempi lunghi e laboriosi, alambicchi e boccette contenevano liquidi che minacciavano sempre di mischiarsi e rubarsi il loro potere a vicenda, pesanti lastre di argento o vetro venivano inserite in altrettanto pesanti apparecchi fotografici di legno massiccio, fino al momento cruciale in cui tutto era in equilibrio e si poteva, diremmo noi, scattare la foto. Già, ma di scattare proprio non si trattava, anzi da lì cominciava un altro tempo lungo, cruciale, in cui tutto doveva tenersi insieme, fermo, immobile. Il tempo dell’esposizione.
I sali d’argento dei primi anni della fotografia pretendevano minuti e minuti di esposizione per annerirsi a sufficienza, ma la società già chiedeva ritratti su ritratti, gruppi di famiglia, effigi gloriose. E allora era tutto un fiorire di piedistalli, di poggiatesta nascosti, di mani nel panciotto e di sguardi imbronciati per restare fermi, per conservare l’immagine cristallina e senza sbavature che si confaceva ai posteri.
La fotografia ha lottato per decenni contro il tempo, ingannandolo, camuffandolo, ostinandosi a contrastare la lentezza di un’immagine che invece da subito si voleva veloce, istantanea.
Negli anni poi il tempo fu davvero dominato, l’istante fu congelato e casomai divenne complesso allungarlo di nuovo, nei decenni che trascorsero tra chi scoprì come un cavallo muoveva esattamente le zampe mentre correva e chi teorizzò la poetica dell’istante decisivo. E allora fiumi di immagini amatoriali furono consacrate a cogliere, a fermare, la persona amica era sempre più bella quando non sapeva di essere fotografata, quando guardava da un’altra parte, quando la mano era congelata mentre passava nei capelli.
Teleobiettivi permettevano di scrutare da lontano e prendere le immagini di migliaia di soggetti inconsapevoli, mentre i corti grandangoli facevano sempre tutto troppo largo e troppo piccolo.
Chiunque conosca qualcosa di tecnica fotografica sa che l’industria regala facilmente all’amatore strumenti per catturare e fissare, ma molto meno lo mette in condizione di rallentare e lasciar scorrere il mondo dentro l’immagine. Fare una foto anche solo di un minuto durante il giorno è cosa che chiede studio e dotazione di obbiettivi professionali, filtri, pellicole di sensibilità molto basse, un armamentario inaccessibile a chi non se ne intenda. È una visione che va contro l’evoluzione tecnica, è una fotografia contropelo.
Molti fotografi si sono però avventurati nella rappresentazione della durata, esplorandone diversi aspetti, usandola per giungere a visioni molto diverse tra loro. Ecco qualche esempio.
Il tempo della luce: Hiroshi Sugimoto e Abelardo Morell
“Immagina se fotografassi un intero film su un singolo fotogramma.” La risposta: “Avresti uno schermo di luce.” … Un pomeriggio andai in un cinema dell’East Village con un apparecchio di grande formato. Appena il film cominciò aprii l’otturatore. Due ore dopo, quando il film era finito, lo chiusi. Quella sera sviluppai la pellicola, e la mia visione esplose di fronte ai miei occhi’.
Hiroshi Sugimoto, South Bay Drive In, San Diego, 1993
Così il fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto descrive come nacque la sua serie Theaters, immagini di sale cinematografici e drive-in immersi nel buio, dove al centro svetta un rettangolo di luce bianca che irradia gradualmente le file di poltrone e le pareti dei cinema. Mai abbiamo nero puro in queste immagini, anche nel punto più scuro scorgiamo un dettaglio o percepiamo lo spazio, come quando entrando in una stanza buia ne percepiamo la profondità. Sugimoto in queste sale arriva a rappresentare la luce della penombra, un buio che brilla di luce propria e che al tempo stesso è la rappresentazione del tempo della luce, come se in fotografia una certa luce ci portasse subito a sentire il tempo che è stato necessario per rappresentarla.
“Una camera oscura è uno spazio di qualsiasi dimensione oscurato completamente salvo che per una piccola apertura. La minuscola quantità di luce che entra nello spazio oscurato produce sulle pareti un immagine capovolta del mondo esterno. Più è piccola l’apertura, più scura ma nitida l’immagine apparirà”.
Abelardo Morell, Times Square in hotel room, 1997
Abelardo Morell non usa parole difficili per illustrare la tecnica di base con cui ha iniziato la sua opera aperta Camera obscura, stanze che vengono ricoperte dalla luce delicata che viene da fuori e che va a distendere la veduta esterna su tutte le superfici, il pavimento, la coperta sul letto, i giocattoli di un bambino. Otto ore circa sono necessarie perché il debole fascio di luce venga registrato a sufficienza sulla pellicola, tempo lunghissimo la cui sensazione rimane nell’osservare quella luce fragile ma così presente che invade silenziosamente tutti gli angoli delle stanze.
Il tempo dei luoghi: Alexey Titarenko e Matthew Pillsbury
Esistono poi lavori che esplorano i luoghi e gli esseri umani che li abitano, rappresentando l’accumulazione del tempo e delle azioni in una singola immagine. Matthew Pillsbury è autore di luoghi scuri abitati da fantasmi, che sia una visita al museo o una presenza su un divano in una camera illuminata dallo sola luce del televisore.
Matthew Pillsbury, Contemplating wapiti, 2004
Al contrario che in Morell, nelle immagini di Pillsbury sembra di guardare ciò che resta, una luce che mostra una progressiva scomparsa, la figura umana che si sfuma fino a scomparire, la luce che si rititira dalle cose fino a nasconderle.
Alexey Titarenko, Untitled (Crowd 2), 1993
Alexey Titarenko invece ci mostra le strade di san Pietroburgo attraversate da onde e da flussi, dentro i quali possiamo scorgere delle figure vagamente umane. L’aria, le strade e le persone sembrano fluire tutte insieme nelle sue immagini, lasciando strati e scie che colorano il bianco e nero virato delle sue fotografie. Pillsbury lavora su luoghi immobili, dove le figure quasi si cancellano per erosione, Titarenko mostra gli strati e le tracce di luoghi e persone in costante movimento.
Oltre la durata: Michael Wesely
“Ho scoperto che posso fare esposizioni lunghe dieci anni. Ma diventa complicato – diventa più questione di chi svilupperà una diapositiva tra cinquant’anni, cosa succede alla pellicola lasciata per cinquant’anni dentro la macchina fotografica. E poi, ovviamente, ci sarà presto la questione della mia stessa mortalità…”
Michael Wesely, Potsdamer Platz, Berlin, 27/3/1997-13/12/1998
Infine Michael Wesely e le sue foto lunghe anni, forse in futuro decenni…
Ma quando delle immagini sono così lunghe, forse è il caso di dire che sono fotografie di un anno e non lunghe un anno. Qui è il tempo stesso ad essere fotografato, e i luoghi lì semplicemente a testimoniarlo. Pur nella loro pulizia compositiva, le forme si confondono, gli edifici svaniscono o sorgono creando trame fittissime, perfino l’alto e il basso sembrano relativizzarsi. Luci del giorno e della notte si fondono in tonalità quasi astratte, senza ombre, il cielo mostra decine e decine di cicli di sole che si sovrappongono. Se per Wesely il suo lavoro è anche una risposta all’infinità di immagini che vengono prodotte e consumate, non resta che scrutare dentro queste fotografie di anni e cercare immagini su immagini, strati e presenze, mentre osserviamo qualcosa che somiglia davvero al limite fisico e visivo della fotografia.
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